Per prendere i pesci, non basta armarsi di amo, dall’aspetto troppo minaccioso per attirare qualcuno degli abitanti del vasto mare. Occorre invece coprire la sua punta di esca, meglio se commestibile e fresca, consiglio inutile se rivolto agli uomini dei partiti perché lo mettono in pratica da sé quando vogliono catturare i pesci. Da qui l’aria di imbonitori da fiera che hanno i nostri politici quando appaiono dinanzi al popolo sovrano, la capacità di dire esattamente quello che il vasto pubblico desidera ascoltare, di far sognare con abili combinazioni di parole(dai,facci sognare! è il pensiero trasmesso dai volti assonnati in attesa dinanzi agli schermi televisivi o ai palchi all’aperto dove si usa spendere parte del tempo durante le serate estive), con la prospettiva di benefici che discenderebbero sul cittadino elettore una volta instaurato il regno della giustizia e del progresso sociale, naturalmente logica conseguenza della conquista del potere ad opera del nostro partito e della condanna all’ignominia e all’astinenza dell’opposizione di quello avversario, ignobile fautore dell’ingiustizia e del regresso. Così, a furia di assicurazione sul nuovo ordine prossimo venturo, quello che avrebbe risolto in maniera definitiva tutti i problemi del passato e persino impedito il ripresentarsi di quelli nuovi nel futuro, ci ritroviamo senza la minima ombra di progresso, a meno che non si voglia chiamar tale un debito pubblico che non smette di crescere e il peso fiscale più alto del mondo che si aggiunge al debito senza alleviarlo e gravante sulle spalle del cittadino elettore che non può ricoverare i suoi guadagni in qualche paradiso fiscale, frequentati viceversa da quanti sono qualificati come benefattori del popolo dai giornali di loro proprietà o comproprietà, poco importa.
Questi inconvenienti non fanno che aumentare gli sforzi dei politici per trovare dei sostituti delle vecchie idee di progresso, nonché nuovi nemici da identificare come i responsabili del regresso sotto gli occhi di tutti, ai quali attribuire pure, a beneficio di chi non regredisce, le colpe del degrado morale fatalmente in agguato, vale a dire il partito diverso dal nostro. Insomma, siamo sempre nel regno delle favole raccontate ai bambini ansiosi di crederci, della buone fatine e degli orchi malvagi, del mondo migliore da conquistare con energiche marce in avanti, nonostante tanta gente si ostini a volersene restare laicamente seduti per pensare ai fatti propri e chiacchierare di questo e di quello.
C’è da chiedersi da dove viene questa secolare propensione della nostra gente a dare ascolto alle favole più disarmanti e perciò più popolari, a bere come oro colato le parole degli imbonitori di piazza, i dispensatori di aggettivi trasformati in sostantivi ma senza altra sostanza che non sia quella del loro suono. Perché non si sviluppa e diventa popolare il rispetto dei fatti, la tendenza a saggiare sulla loro ruvida scorza le parole prima di metterle in circolazione per provare la regolarità del loro conio? Perché si continua a sognare al suono delle parole, ad accendersi di indignazione alla retorica dei comizi, invece di guardare i risultati delle promesse, cercare di scoprire se il loro metabolismo è regolare, se non ingurgitano troppo cibo in relazione alla magrezza dei risultati.
Si dirà che in un paese dove sono fioriti il sonetto e il melodramma non è facile sottovalutare la retorica. Inoltre, le occupazioni straniere vi hanno avuto come conseguenza anche la crescita dell’importanza delle parole come sostitute di fatti, vietati da polizie, eserciti di occupazione e preti. Ma qui non è questione di facilità, bensì di sopravvivenza, perché le parole liberate dall’obbligo di corrispondere ai fatti diventano disponibili a tutte le manovre a nostro danno. Infatti, le parole in libertà, fuori del controllo empirico, sono destinate prima o poi a mettere fuori controllo le teste, che è quanto vogliono i gestori del potere per continuare a gestire come a loro meglio piace il bilancio.
Perciò, soltanto una prolungata assuefazione all’inganno può far credere ai più che la democrazia sia una questione di parole, eventualmente accompagnate con bandiere al vento, sfilate nelle pubbliche strade e assembramenti nelle piazze principali di paesi e città. Se il suono carezzevole delle parole promette all’affaticato e al depresso giorni migliori e persino euforici, lo stesso fanno i narcotici, propinati a giovani e adulti, lavoratori e disoccupati. Visto dai disagi dell’oggi, il domani è sempre un giorno migliore e i propagandisti di partito appartengono alla classe delle mosche astute, capaci di far credere che il carro si muove per merito loro e non dei buoi legati alle stanghe. Tuttavia, per l’uomo di partito, se non finisce in carcere, il domani sarà senz’altro migliore di oggi perché quello sarà il tempo in cui potrà raccogliere il frutto dalla trama tessuta oggi. Questo vuol dire che la democrazia è il regno dove il falso ha libera circolazione? Non lo crediamo, o almeno non è più libero che sotto altri regimi. Vogliamo invece dire che soltanto nella democrazia il falso può venire scoperto è denunciato senza corrore il pericolo dell’arresto in flagranza di reato. Essa ha soprattutto bisogno di controlli dal basso, da chi ne paga le spese, non di propagandisti dei partiti il cui scopo è sempre il potere e la sua gestione, soprattutto il suo simbolo visibile, il denaro. La democrazia ha quindi le sue vittime e i suoi beneficiari, è oggi le prime stanno per diventare maggioranza. Questo apre a nuove possibilità, crea un bisogno di informazione e partecipazione sconosciuta nel passato, quando la promessa di partecipare alle spartizioni bastava per crearsi negli elettori una provvisoria platea di complici interessati. Senza un efficace sistema di controllo fatto di informazioni e azione, il potere diventa inevitabilmente abuso e la democrazia degenera nel governo dei partiti a proprio vantaggio, in partitocrazia.
Il controllo degli abusi di potere è scritto sulla bandiera del liberalismo sin dal suo sorgere, quando la società civile doveva confrontarsi con una tradizione di abusi materializzata nel potere autocratico del monarca (G.De Ruggiero:Storia del liberalismo europeo,Bari).La rivoluzione costituzionale inglese aveva come programma di sottrarre al re la facoltà di imporre tasse e spendere il denaro pubblico senza rispondere a nessuno. Ma perché il contribuente arrivasse a controllare la tassazione e la spesa pubblica, la testa di un re è dovuta cadere per sancire un principio nuovo: l’uomo comune non è più disposto a restare suddito. Una rivoluzione si è compiuta, certo con i colori meno rutilanti delle tante rivoluzioni agitate nel nostro paese nel recente passato e invece di discorsi accesi si alimentava di freddi calcoli, di prese di posizione sostenute dalla volontà di proteggere la borsa dall’agente delle tasse e dal birro che gli veniva dietro. Informazioni controllabili e freddi calcoli piuttosto che le frasi accese ci sembrano però l’unica soluzione dei mali di un paese dove la malafede si copre spesso di unzione e la volontà di prevaricazione in concessione a una sciatteria coltivata con arte per dividere le colpe e distogliere così lo sguardo dai veri responsabili.
Maggio 2013