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AL PRINCIPIO ERA FIRENZE (Firenze e la sua eredità al mondo moderno)

Questo non è un tentativo di recupero archeologico fatto da uno che vive con la testa rivolta all’indietro, ma una proposta per comprendere la natura dei problemi attuali e come venire alla loro soluzione. Quindi, lungi da noi l’intenzione di metterci ad idoleggiare le nostre città storiche, o di rinchiuderci tra le loro mura, perché quello che vogliamo fare è soltanto rilevarne alcuni valori di portata universale, rimasti come incapsulati in spazi cittadini troppo limitati e difficili da cogliere per l’occhio del turista frettoloso. In questo senso, Firenze si offre come caso esemplare.

Se, come scriveva Mario Cipolla, all’ombra dei campanili si scorge il mondo, all’ombra dei campanili di Firenze  si ha non solo modo di scoprire il mondo moderno allo stato embrionale, ma anche la forma che prende nella gioventù piena di balde speranze e audaci progetti di vita. Ci limiteremo a dare alcuni cenni della questione sulla quale si sono esercitate le forze di numerosi studiosi alla ricerca, in piena età matura, di come si era nei verdi anni, o di come si potrebbe essere ancora se le speranze di un giorno lontano avessero preso corpo (vedere in particolare Konrad Burdach: Umanesimo, Rinascimento, Riforma).

La prima osservazione da farsi in proposito riguarda la vita sociale, della quale la città medievale, con i suoi fossati, le mura a difesa da eventuali assalitori e le relative feritoie a offesa dei medesimi, rappresenta forse l’emblema più evidente, il linguaggio caratteristico di un mondo che si chiude per meglio aprirsi a questioni di un altro ordine, diciamo di un ordine superiore. Vogliamo invece parlare di Firenze nella sua dimensione culturale, culla della lingua italiana, che già sarebbe un bell’argomento da portare a sostegno della tesi enunciata nel titolo del nostro lavoro. Soprattutto, vogliamo parlare della funzione che esercita la lingua la quale, mentre si forma, forma nello stesso tempo coloro che la parlano. Come scrive Stefano Guazzo nella sua La civile conversazione (1574): “la medesima natura ha dato la favella all’uomo, non già perché parli seco medesimo,…,ma perché se ne serva con gli altri; e voi vedete che di questo istrumento ci serviamo in insegnare, in dimandare, in conferire,in negociare, in consigliare, in correggere, in disputare, in giudicare, in esprimere l’affetto dell’animo nostro, co’ quali mezzi vengono gli uomini ad amarsi, e a congiungersi fra loro”(citata in E. Garin: L’umanesimo italiano, Bari, 1984,p.180). E lo stesso Garin continua:”Ma la lingua non è solo il tessuto connettivo dell’umana società; è la vivente tradizione del sapere umano,per cui la scienza si realizza e si trasmette: ‘non si può ricevere alcuna scienza, se non ci è insegnata da altrui…la conversazione non è solamente giovevole, ma necessaria alla perfezione dell’uomo’.

Anzi principio e fine di ogni sapere è proprio questo dialogo umano(‘il sapere comincia dal conversare e finisce nel conversare ’), in cui non solo si mette alla prova il nostro sapere, (‘la disputa è il cribro della verità ’), ma si sveglia l’anima nostra,e si incita a feconda ricerca“(ibidem).

Queste idee del Guazzo, ‘gentiluomo piemontese ’, erano proprie dell’umanesimo fiorentino, della sua concezione dell’intera vita sociale e dell’educazione del giovane, che nel dialogo si impadronisce delle cognizioni apprese dai genitori e maestri, dei loro valori, nonché della formazione e del significato dell’opinione pubblica. Infatti a Firenze si sviluppa “una nuova prassi educativa fondata su una chiara presa di coscienza dell’autonomia e dell’originalità dell’infanzia,sulla comprensione e sulla discussione piuttosto che sulla forza e sull’autorità fine  a se stessa. Insomma, i borghesi fiorentini.….riscoprono quei precetti di educazione della volontà, di pratica dello sforzo, di formazione sperimentale fondata sugli scambi sociali, che vengono teorizzati nello stesso tempo dagli umanisti” (C.Bec: Cultura e società a Firenze al tempo di Filippo Brunelleschi, in A.V.:Filippo Brunelleschi. La sua opera,il suo tempo, Firenze,1980,p.21). La famiglia, primo nucleo sociale, condivideva con la società la pratica della mutua educazione tramite il dialogo tra i suoi componenti, dialogo che non escludeva le giovani generazioni, al fine di trasmettere loro i valori degli adulti.

Il dialogo, creando il tessuto delle umane relazioni,  chiarendo le idee di coloro che vi partecipano, prepara anche alla produzione delle opere più diverse, i frutti dell’ingegno umano, dagli edifici sacri e profani, alle opere degli artigiani chiamati a darvi il loro contributo. L’educazione umanistica è necessaria all’architetto, all’urbanista, così come a tutti coloro che concorrono alla loro opera, e il curioso che passeggia per le vie di Firenze compie nello stesso tempo un corso completo di educazione  umanistica, che, per quanto detto sopra,  è insieme educazione estetica e scientifica.

Nel caso di Firenze, l’intera città, dalla piazza centrale sino al più piccolo vicolo, si presentava come foro, il luogo degli incontri e delle opere, in cui risuonava la comune favella che per essere sulla bocca del popolo non per questo era meno capace di dare luce ai pensieri, meno ricca di sensi. Essa si sviluppava dall’insieme delle attività che fervevano entro le mura della città, dalle opere degli ingegni eminenti e da quelle dell’umile artefice che per questa via si elevava sino al rango di una coscienza di sé, della vita comune e delle cose del mondo, delle quali costituiva anche lo spirito animatore.

Ma la scienza moderna, nata a Firenze o per opera dei suoi figli, preparata dall’educazione umanistica, non si realizza senza una presa di coscienza che va oltre l’educazione umanistica stessa. Essa infatti richiede un di più, che forse essa non sa esprimere sebbene implichi o manifesti sotto altre forme. La scienza infatti, sebbene si alimenti delle linfe che circolano nella coscienza e nel linguaggio, i suoi caratteri genetici le sono conferiti dall’osservazione, dall’esperienza con le cose e, in seconda istanza, pure con gli uomini. Se infatti nell’edificazione dei numerosi palazzi  ad uso pubblico o privato predominavano valori armonici, a loro volta non in contraddizione con le proporzioni che ne garantivano la necessaria stabilità, con una matematica platonica attenta ai valori estetici, nell’edificazione della grande cupola del Duomo ai criteri estetici Brunelleschi doveva aggiungere cognizioni di altro genere, cognizioni che oggi chiameremmo scientifici, di scienza obiettiva, governanti i rapporti tra le cose dove non regnano armonie, e ,se vi regnano, non sono  armonie percepite da orecchio umano ma soltanto dalla mente (P.Sanpaolesi:Le conoscenze tecniche di Brunelleschi, in ibidem,p.145 e segg.).

Come si vede, non è poco, sebbene visitando Firenze, studiando quanto vi ha depositato la storia, vi si possa trovare anche di più, una sintesi nella quale tornano a incrociarsi le numerose  strade prese dalla vita spirituale e materiale moderna.

Ulteriori indicazioni si possono trovare nel saggio: E.Petaccia:Che cos’è l’umanesimo popolare?(Una cultura per modernizzare il paese), Milano, 2011.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FORMICHE, CICALE E GRILLI: Esiste una via elettronica per la democrazia?

Le formiche, che in fila indiana trascinano il loro peso verso il formicaio, sono silenti. Difficile sentirle protestare, occupate come sono dalla strada da seguire e ad evitare i predatori di tutte le specie sempre in agguato e pronti ad appropriarsi delle fatiche degli altri. Il loro motto è lo stesso di quello adottato dagli sgobboni di scarsa fantasia:”tacere e lavorare” o dai sistemi di governo che pensano a tutto e vogliono evitare ai sudditi la fatica di usare la propria testa. Sono coscienziose e giudiziose, le formiche, e occorre aspettare la sera  perché smettano di lavorare e si preparino per la cena, proprio come fanno molti degli umani.  Ma da questo punto di vista le formiche debbono ritenersi più fortunate degli umani perché i pezzi grossi del formicaio non possono ingurgitare cibo oltre una frazione  del loro peso, per cui  soltanto per la garanzia costituzionale di questa legge di natura le formiche operaie non vanno a letto senza cena. Nella loro semplicità di esseri che vivono a contatto con la terra, trovano naturale persino le catene dalle quali però non traggono materia per sparlare tutte le volte che,muso contro muso, hanno occasione d’incontrarsi ma, ignare di metafore e della retorica da piazza o televisiva, sulle quali si sono costruite e si costruiscono delle vere fortune. Abituate a chiamare pane il pane e  il sudore della loro fronte sudore, non si sognano nemmeno di considerarlo come una punizione inflitta ai figli per i peccati commessi dai più lontani genitori o il segno distintivo di una nobiltà nuova, riservata proprio al popolo lavoratore.

Invece, per le cicale appostate tra i rami delle querce, degli ulivi, dei cipressi(che sono alberi non certi messi per rallegrare i luoghi dei morti) e persino sulle margherite, fiori dei campi, nonché sui rami di altri vegetali della selva italica, le cose vanno diversamente. Spargono il canto sotto il cielo azzurro convinte che niente possa succedere senza un loro commento. E infatti commentano, senza trascurare di  aggiungere che soltanto esse conoscono i reali bisogni delle silenti formiche e sanno rappresentarle nelle istanze costituzionali.  Chi si trova in alto non solo può risparmiarsi le molte fatiche di chi si trova invece a livello del suolo ma può far credere che nel migliore dei mondi possibili le formiche sono state create per lavorare e le cicale per informare, educare, rappresentare e cantare. Così va oggi il mondo e, temiamo continuerà ad andare nel futuro.

L’errore delle formiche non consiste tanto nel lavorare e di chiamare le cose col loro nome, come non può evitare di fare chi lavora per il quale l’azione transita sempre dal soggetto all’oggetto, quanto di ignorare la libertà di manovra nei confronti delle  parole da parte  delle cicale che si guardano bene dal mettersi  a lavorare e, ricche dell’antica arte di chi sa congegnare frasi simili al vero, fanno sempre transitare l’azione sulle spalle dei sottoposti mentre ne dirottano i frutti nelle loro tasche.

Ecco perché è tempo per le formiche di alzare la testa e,invece di lasciarsi cullare dalla musica suadente delle cicale e degli altri parassiti appostati sui rami del bosco, o imprecare  contro il destino cinico e baro, cominciare ad apprendere come snidarli dalle loro comode postazioni senza dover incendiare il bosco e se stesse.

Una via garantita dal successo passato esiste ed è quella che insegna a vedere. dietro gli orpelli del potere, se non di “che lagrime grondi e di che sangue” la sua propensione ai più prosaici abusi, all’ingordigia dell’altrui alla quale non sa resistere, alle menzogne ad essa funzionali, i giochi di parole,e emissioni e le amplificazioni così utili per annebbiare i cervelli degli elettori. Ma siccome una via come questa richiede  tempo e fatiche, nonché letture assai diverse da quelle che sono nelle corde delle formiche, ne resta un’altra più alla loro portata, perchè in fondo si può essere formiche e silenti quanto si vuole,  ma occorre pur usare parole per comunicare e vivere in armonia con gli altri abitanti del formicaio. Da qui per le formiche l’utilità di conoscere come nascono le parole, le quali possono nascere dalle cose e venire al mondo animate da spirito di verità, ma possono anche, animate da intenti che soltanto l’orecchio esperto sa riconoscere,  mettere al posto delle cose la  loro ombra e anche qualcosa di meno denso dell’ombra. Arte nuova che solleva dai luoghi chiusi e spesso silenti in cui si svolge la vita privata alle regioni asciutte della vita pubblica, dove ogni pensiero, anche il più tortuoso, diventato di dominio generale,  può venir giudicato senza che ne riceva torto perché, dove i giudizi si incontrano e confondono le loro acque, i torti di molti si compensano, o almeno si attenuano, per far emergere qualcosa di analogo al vero, quel vero che è medicina per l’anima e suo tonico. Nella libera piazza, dove le libere opinioni hanno accesso e dal confronto emerge quella in grado di esprimerle tutte,  poco spazio resta tanto alle unilateralità delle affermazioni più sicure di sé del padrone della borsa, come alle parole  plastificate del demagogo al suo servizio,  tutte precipitate al rango di opinione che debbono lottare per l’esistenza.

L’arte di farsi sentire pur restando attaccati alla terra e alle cose, dai loro orizzonti all’apparenza ristretti, non è delle formiche né delle cicale. E’ piuttosto arte da grilli che dal loro buco, estro permettendo, non smettono di far sentire una voce che oggi, nell’epoca della comunicazione totale,può giungere alle orecchie di altri grilli e diventare, da opinione personale quale era in partenza, fatto pubblico, a scorno dei gazzettieri e altri fabbricanti dell’opinione pubblica.

Si sottovaluta la portata di questa attività grillesca pensando che sia una conseguenza del mezzo di cui occasionalmente ci si serve. Il suo orientamento generale soltanto in apparenza è lo sfogo di sentimenti repressi, dell’impotenza a cambiare il corso delle cose, soprattutto quando corrono a suo danno. Costretto a prendere forma dal mezzo, lo sfogo  diventa presto opinione. Organizzato, eliminando le inevitabili stonature, può contribuire alla formazione di una coscienza indipendente dai mezzi manovrati dal capitale in veste di informatore ed educatore, una coscienza ritagliata sulle esigenze personali e, proprio per questo,  più sicuramente generale e pubblica.

 

Settembre 2012

 

 

 

 

 

AMBROGIO LORENZETTI: Il buono e il cattivo governo a Siena

Dopo una vicenda di torbidi e lotte interne ed esterne, tra il 1287 e il 1355 il comune di Siena fu retto da un regime di estrazione popolare e mercantesca, con a capo la magistratura dei Nove che escludeva tra i suoi componenti i nobili. Nel 1338, ricevuto l’incarico dai Nove, Ambrogio Lorenzetti inizia a dipingere sulle pareti della Sala detta dei Nove, nel Palazzo Pubblico di Siena, il ciclo degli affreschi sul Buon e sul Cattivo Governo a istruzione della popolazione sulla natura dell’ordine politico e  ammonimento a proseguire sulla via intrapresa.

Il ciclo, che si estende per una lunghezza di 35 metri, comprende sei dipinti. Nel primo, l’Allegoria del Buon Governo, il Comune, nelle sembianze di un saggio monarca, è come assiso in trono, affiancato dalle figure allegoriche della Pace, la Giustizia, la Temperanza, la Fortezza, la Magnanimità e la Prudenza, mentre sul suo capo siedono,  in vesti di consigliere, tre figure femminili, le virtù

A.Lorenzetti(1285 circa-1348):Allegoria del Buon Governo(Palazzo Pubblico-Siena)

A.Lorenzetti(1285 circa-1348):Allegoria del Buon Governo(Palazzo Pubblico-Siena)

teologali:Fede, Speranza e Carità. La giustizia, come mostra la figura con la bilancia, divide,senza fare distinzioni tra popolani e nobili, i buoni cittadini dai reprobi. Accanto, i due affreschi sugli effetti  del buon governo in Città e in Campagna. Una folla di persone troppo intente alle loro occupazioni ordinarie per partecipare agli odi e alle lotte di fazione. La vita si svolge in un clima di concordia e serena fattività in cui a ciascuno è dato di contribuire al benessere generale col proprio lavoro, nella mentalità dell’epoca  meno  scelta personale che il segno di un destino decretato da Dio stesso.

Effetti del Buon Governo in città

Effetti del Buon Governo in città

 

Se l’Allegoria raffigura le cause ideali, i due successivi affreschi, sugli Effetti del Buon Governo ne rappresentano le conseguenze nella vita mondana, sul piano economico, etico e politico.

A questi fanno da contraltare altri tre affreschi. Nell’Allegoria sul Cattivo Governo, personificato da una figura con le corna, evidentemente il diavolo in persona, i pacifici e costruttivi abitanti precedenti sono sostituiti da altri personaggi: la Discordia, la Crudeltà, l’Avarizia, la Perfidia, Frode, la Tirannide, la Vanagloria e,quindi, la Guerra gli i cui effetti sono le lotte intestine, rovine in città, campagne desolate, saccheggi, rapine.

Ambrogio Lorenzetti: allegoria del cattivo governo

Ambrogio Lorenzetti: allegoria del cattivo governo

Ora, a parte il valore artistico(grande) del ciclo, uno dei primi di soggetto laico nell’arte del tempo, esso si fa apprezzare anche per la chiarezza con la quale viene espresso il suo messaggio   politico del quale è agevole misurare il grado di attualità.

Lo stato è in pace e prospera  quando i governati possono esercitare le loro particolari attività, quelle stesse attività sulle quali lo Stato si sostiene e che in definitiva sono sue parti organiche, costitutive, mentre i governanti comprendono i bisogni vitali della popolazione quali si trovano riflessi in ideali di pace, giustizia,ecc. e provvedono a riguardo. L’autorità politica giusta è quella che si astiene dall’usare le armi del potere politico per perseguire gli interessi particolari dei componenti. Essa è conseguenza di virtù e sapere, ma  non si costituisce nella sfera dell’astrazione perché deve comprendere gli interessi particolari da volgere a fini di pubblica e generale utilità.

Effetti del Cattivo Governo in campagna

Effetti del Cattivo Governo in campagna

Come scrive G.C.Argan(Storia dell’arte italiana, Vol.2, p.34-36, Sansoni) si tratta di concetti di derivazione aristotelica: la vera natura dell’uomo è la razionalità come si manifesta nella vita sociale, nel mondo dei rapporti umani.

In mancanza di un’autorità giusta, gli interessi particolari, invece di concorrere al benessere generale,manifesteranno la loro essenza perversa e asociale portando, con la rovina dello stato, la rovina generale.

Quando per difetto di comprensione o per costitutiva inclinazione al male degli individui chiamati a governare, gli interessi di parte e,dietro questi, le partigianerie, gli interessi delle cricche e personali, penetrano nella  sfera del governo, o, detto in maniera più colorita, i diavoli prendono possesso della città, il libero lavoro è sostituito dal desiderio di arricchimento a tutti i costi, mentre frode e  sopraffazione, rapina e violenza prendono il posto dei rapporti fondati sul consenso e il reciproco giovamento.

Per il Lorenzetti di questi notevoli affreschi, lo scatenamento dello spirito parte, della trasformazione della lotta politica in guerra di fazioni, l’emergere delle cricche e dei partiti personali, benché sotto la copertura di frasi altisonanti, è il segno più sicuro che la politica è diventata perseguimento dell’interesse personale, ricerca di privilegi, stipendi,pensioni d’oro. Insomma, acquisto della  roba altrui, furto con destrezza, soprattutto dei più semplici, del popolo  lavoratore troppo fiducioso nella virtù delle proprie mani per poter resistere alle manipolazioni delle idee e della lingua fatte per impartirgli i salutari insegnamenti su quello che deve sapere.

 

 

CARLO CATTANEO: la città, la storia, la buona e la cattiva amministrazione

Lo scritto di Cattaneo La città considerata come principio ideale delle istorie italiane è per noi del massimo interesse sotto due punti di vista. Secondo il grande milanese, a partire dal più remoto passato, per le genti del nostro paese la storia narra vicende di città, che sono vicende di  organizzazione della vita economica e politica, nonché culturale, a partire dalle piazze e dai vicoli disegnati con maggiore o minor rispetto dello spirito geometrico entro le mura delle nostre città. In questo caso, l’organizzazione dell’intera  vita delle comunità si rendeva visibile come organizzazione urbana. Il cittadino, prima che l’abitante di una città, era il portatore di doveri e  diritti e della volontà e capacità tanto di rispettare i primi che di difendere i secondi contro le forze feudali arroccate nei castelli montani o nelle abbazie, i nemici naturali dei diritti. Egli traeva linfa intellettuale ed etica dalla vita cittadina nella quale si formava, cui del resto ne restituiva in abbondanza perché le istituzioni, in larga misura emanazioni della volontà comune e  con ogni loro decisioni controllate dal basso, non potevano facilmente operare nell’ombra, all’insaputa dell’universale  e contro i suoi interessi. Col nome di municipio, con la campagna che la circondava e da cui traeva il necessario per vivere, formava un’unità inscindibile,  controllando tutti  gli elementi di vita necessari per formare  quasi uno stato in miniatura. Entro questi limiti, la vita degli uomini poteva svolgersi liberamente e in tutte le direzioni, perché non era difficile vedere il fabbricante farsi commerciante e banchiere, come anche politico, storico e combattente per la sua piccola patria.

Le epoche successive, degli stati territoriali, delle società della produzione industriale e degli scambi commerciali,  hanno decretato la fine dei sistemi economici e politici  cittadini chiusi da mura e fossati. Gli stati moderni costituiscono organizzazioni di vita più vaste e complesse, dove però il cittadino, preso dal    meccanismo della vita pratica, da rapporti competitivi tra privati a loro volta fonti di problemi di ogni genere , raramente trova occasione di sollevare la testa e informarsi sullo stato di salute della vita comune, salvo per quelle notizie che hanno più diretta importanza per la sua vita e filtrano attraverso organi di comunicazione occupati più a manipolare le informazioni a vantaggio dei loro padroni che a informare obiettivamente. Soprattutto quando le notizie vengono scodellate tutte le sere nei salotti di casa dove il cittadino stanco siede affamato più di quanto bolle in pentola che di verità. Il fenomeno del cittadino manipolato e tipico di un’epoca evoluta in cui esistono tecniche per ogni bisogna, comprese quella rivolta a plasmare le anime e a farle vibrare in accordo con i massimi interessi che controllano i mezzi di informazione stessi.

Parallelamente alla transizione dallo stato cittadino a quello  esteso territorialmente,la città,da struttura politica, è diventata organo di amministrazione dello stato che drena risorse dal territorio per erogare servizi, mentre il cittadino, smesse le vesti  eroiche di un tempo, si trova ridotto al più modesto ruolo di contribuente. Il che sarebbe poco male se i suoi soldi, anziché venir dirottati nelle capaci tasche dei padroni a cui rispondono i politici e,in misura minore, nelle tasche di questi, venissero usati per gli scopi in ragione dei quali sono stati prelevati.  La storia  chiede quindi ai cittadini di cambiare pelle, di trasformarsi da difensore di mura e fossati alabarda in pugno in controllore della finanza pubblica, maltrattata dagli amministratori di solito tanto più sorridenti sotto le elezioni quanto più decisi ad approfittare della carica una volta eletti. Compito nuovo ma non meno rispettabile e impegnativo di quello di una volta quello del controllore della regolarità amministrativa, di come sono  spese le risorse pubbliche, perché informarsi di quanto succede alla cosa pubblica richiede impegno e impone rispetto, anche se ora in fin dei conti sembra voler difendere i suoi interessi e non il prestigio della città.  E questo senza perdere nulla della sua antica dignità di cittadino militante. Infatti, non è molta la strada da percorrere per giungere dal controllo amministrativo a quella coscienza politica che oggi, come in altre epoche, può essere soltanto il prodotto di una cultura capace di comprendere a abbracciare tutte le diverse e contrastanti volontà. Nel mondo moderno, la coscienza politica può nascere soltanto dalle cose e da una cultura che ne comprenda l’intima natura, i poteri e le resistenze, come le direzioni alle quali sono volte le volontà degli uomini,  il frutto di una cultura organizzatrice sorta dalle cose stesse e perciò smentibile soltanto dalle cose.

Da qui occorre ripartire per non smarrirsi nelle tendenze caotiche di un mondo che va per al sua rombante strada senza chiedere prima il parere  a coloro che sono destinati a venir travolti.

Nelle pagine seguenti si parlerà anche di soldi, e forse a taluno sembrerà con lo spirito ragionieristico di chi si preoccupa di far quadrare i conti. Ma si ingannano, perché si tratta di un segno dei tempi, di tempi in cui il cittadino non si contenta più delle parole rassicuranti delle quali sono prodighi i demagoghi, col loro seguito di barattieri e falsari, ma si sente finalmente in grado di gettare luce sull’unica realtà ancora circondata da reverente mistero:quello circa la natura del legame tra le parole e i fatti. Questa è la sfida alla quale i nostri tempi sono chiamati.

Si potranno anche trovare significative suggestioni nelle immagini di città nelle quali la loro vocazione politica antica risulta evidente nelle cose stesse.  Organizzate attorno ai rispettivi fora esse suggeriscono l’esistenza di un ordine che era il risultato di un interesse e un pensiero comuni, compatti, non la divagazione dietro immagini di felicità personali fatalmente deluse da più potenti pensieri volti a perseguire interessi più grandi dei nostri.

Rivolgersi allo spirito delle città per trarne insegnamenti ancora validi ai nostri giorni potrà venir accusato di campanilismo ma non di ristrettezza mentale se gli insegnamenti tratti sono quelli giusti. Ecco perché vogliamo riunire le nostre forze nel nome di un passato che potrà diventare ricco di insegnamenti per il futuro.

Parla dell’argomento che conosci meglio perché lo vivi, della tua città e del significato universale della sua storia;scambiatevi le idee sugli insegnamenti che trasmette. Si formerà così una rete di cittadini che invece di accontentarsi delle parole confezionate da altri per illuderlo e deluderlo si impegnano nell’arduo compito, che riveste anche un loro interesse primario, di  scoprire tra i segni ambigui dei tempi  una verità non disprezzabile. (Ottobre 2012).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CHE COS’E’ LA PARTITOCRAZIA(Ernesto Rossi sulla partitocrazia)

Appena usciti dalla dittatura e dalla guerra mondiale, ristabilita la così detta democrazia parlamentare, dalle pagine del Mondo Ernesto Rossi(1897-1967) si prova a mettere a nudo dinanzi agli occhi degli italiani la natura dei partiti di massa appena ricostituiti e la loro logica immanente. Spirito realista, immune da intenti  denigratori nei confronti dell’dea democratica,  apparsa così seducente nei cupi anni della dittatura, il suo scopo era prima la diagnosi del male e, successivamente, di sentire i rimedi a processi degenerativi che sembravano svuotare di contenuti un’idea per la quale molte persone si erano battute ed erano morte.

“Il suffragio universale e la rappresentanza proporzionale – che hanno costretto i partiti ad estendere la propaganda tra tutti i ceti sociali -, il progresso della tecnica di propaganda – con la quale si riesce a convincere gli elettori a votare  per certe liste e per certi candidati con gli stessi costosi sistemi con i quali si persuade la gente a comprare i dentifrici -, la sempre maggiori difficoltà a trovare persone che lavorino gratuitamente per realizzare un programma politico, hanno fatto enormemente   aumentare, durante l’ultimo cinquantennio, le spese dei partiti politici.

Per far funzionare la <macchina> di un partito di massa oggi occorre gettare sotto la sua caldaia quattrini a palate:alcuni miliardi vanno ogni ano per l’organizzazione e le attività ordinarie( sedi della direzione centrale, delle federazioni provinciali, delle sezioni comunali e dei quartieri; stipendi a molte centinaia d funzionari; rimborsi delle spese di viaggio e di soggiorno per convegni internazionali e riunioni della direzione, del comitato centrale e di tutti gli altri comitati; manifestazioni pubbliche, film,posta, automobili dei dirigenti; manifesti murali;assistenza legale,ecc.),mentre altri miliardi vengono spesi saltuariamente per le campagne elettorali, per coprire i disavanzi dei giornali politici, per i congressi, per i contributi straordinari per le associazioni parapartitiche,ecc.”(Il <combustibile> dei partiti,in: Ernesto Rossi:Contro l’industria dei partiti, 20 ottobre 1963, in: Chiare lettere, 20012, p. 83-4).

Rossi vedeva l’inizio dell’epoca classica della partitocrazia, quella che va dalla fine del secondo conflitto mondiale, il 1945, e la caduta del muro di Berlino(1989), l’epoca della guerra fredda e dei blocchi ideologici contrapposti, caratterizzata dalla competizione per attrarre consensi condotta senza esclusione di colpi guerra e al limite della guerra civile strisciante. Tuttavia, le sue considerazione si rivelano valide in ogni circostanza data l’importanza della posta politica in gioco in ogni turno elettorali: la direzione degli affari pubblici e la gestione dei relativi bilanci in cui sono maneggiate somme enormi di denaro, la possibilità di favorire con leggi, decreti, la rivelazione di notizie riservate ad amici e finanziatori.

Da qui la relativa facilità con la quale si può rispondere alla domanda:da dove vengono tutti i quattrini spesi dai partiti?

“Il bisogno di quattrini, il bisogno di sempre più quattrini da buttare a palate sotto la caldaia della macchina, è uno dei principali fattori che determinano l’atteggiamento pratico dei partiti davanti ai maggiori problemi che hanno comunque un riflesso sulla vita economica del paese. Gli amministratori dei partiti non possono trovare le decine e le centinaia di milioni, necessari alla macchina, nel portafogli dei <tifosi> che delirano di entusiasmo ai discorsi dei propagandisti nei comizi politici; li trovano nelle casse delle organizzazioni padronali di categoria, nei conti correnti in banca dei grandi industriali e  dei grandi proprietari terrieri e nelle percentuali sugli affari, più o meno sporchi, resi possibili dagli interventi statali”(Le serve padrone, Il Mondo,24 giugno 1950, in ibidem, p. 9).

Qual è l’origine di tanti slanci di solidarietà dei danarosi padroni nei confronti dei bisognosi partiti di massa? Sono essi stati colpiti da improvvisi attacchi di generosità per le sorti della massa o per l’ideale? Niente di tutto questo.

“I grandi finanziatori dei partiti non danno i quattrini per motivi altruistici;li danno per avere la difesa dei loro interessi, e per ottenere favori e privilegi che compensino le somme sborsate, considerando nel costo di questi investimenti anche un’altissima quota per i rischi relativi a tutte le operazioni del genere…Ogni partito al governo dispone di cariche, incarichi, enti da gestire o da controllare con i propri uomini, e quindi è logico e naturale che costoro,  dovendo al partito da cui provengono la nomina, dirigano e amministrino con i criteri loro imposti o suggeriti”(ibidem,pp.9-10).

In altre parole, accade quello che è accaduto da che mondo e mondo:i pifferai suonano la musica comandata da chi sborsa i dobloni o i talleri, e buon per loro se viene trovata di gradimento dal vasto pubblico perché, nel sistema proporzionale, più voti significa più potere e quindi più posizioni di comando da occupare per compensare i finanziatori ben nascosti nell’ombra.   In quanto alla musica suonata, è quella che si è soliti ascoltare nelle pubbliche piazze, dove si accampano gli imbonitori dei rimedi miracolosi, i venditori della mercanzia più variopinta.

E questo non senza una logica necessità perché nelle condizioni sociali del mondo moderno non si va nelle pubbliche piazze per scambiare e ragionare ma  per farsi intrattenere dall’illusionista di turno, la cui lingua spericolata e senza i ritegni di chi dovrà poi rispondere di se stesso,  è abile nell’unire quanto la logica delle cose  tiene distinto e separa quanto invece deve restare unito. Infatti, esperti come sono nel disegnare seducenti scenari con le parole, sanno pure il fatto loro quando si tratta di tenerle separate dai fatti che invece dovrebbero garantirne l’autenticità, per accoppiarli con altri creati ad arte, o immaginari come le parole, ma con le quali sembrano andare d’amore e d’accordo, secondo l’arte sublime del conduttore di popoli, del demagogo che nelle democrazie trova le condizioni migliori per far fortuna.

Pazienza se tutto questo si riducesse alla fine soltanto in una perdita erariale, nel passaggio del denaro dalle tasche del contribuente alla cassa pubblica e da questa nelle tasche degli amministratori e finanziatori dei partiti, un travaso che ubbidisce alla legge di natura secondo la quale il denaro è attratto da altro denaro. Perché per favorire i finanziatori, i partiti debbono tener lontano dai posti strategici che decidono e controllano la spesa degli enti pubblici, le persone capaci ed oneste, i così detti servitori dello stato, difficili da convincere ad abbandonare gli obiettivi  criteri di gestione. Essi difficilmente si piegherebbero alle direttive dei maneggioni di partito  a vantaggio degli arrivisti più spregiudicati, sempre pronti a ubbidire a coloro ai quali debbono il posto. Conoscitori delle leggi quanto basta per eluderle senza subirne le conseguenze, sanno come muoversi nella giungla dei bilanci degli enti amministrati per creare fondi a favore dei partiti di riferimento.

“Nessuno potrà mai stabilire quanti miliardi della ricchezza nazionale sono così distrutti per ogni centinaio di milioni che entra nelle tasche degli affaristi politicanti quale compenso per ogni milione che i medesimi signori versano nelle casse dei partiti.

…Il male forse più grave è che molti degli espedienti usati dagli uomini politici per finanziare i partiti non possono essere messi in pratica senza la connivenza dei funzionai preposti ai più importanti servizi pubblici. E, una volta che abbiano aiutato gli uomini politici a tali pratiche camorristiche, i più alti papaveri della burocrazia romana diventano intoccabili. Anche se non hanno voglia di lavorare, anche se sono completamente inadatti ai loro compiti, anche se rubano a man salva, non possono più esser rimossi. Le loro malefatte sono tutte perdonate per timore che vengano altrimenti scoperti dei pericolosi altarini”(Una malattia segreta,Il Mondo 30 agosto 1952, in ibidem,p.42).

Così Ernesto Rossi. Ma se dai primi anni ’50, quando i partiti ancora strutturati, organizzati nella logica delle grandi divisioni di interessi  del mondo sociale e delle idee che li rappresentavano,  seguivano nel procacciarsi denaro  un metodo dotato di una sua perversa giustificazione, veniamo ai nostri giorni, i giorni dei partiti personali senza metodo e senza organizzazione,dobbiamo ammettere che le cose non sono affatto cambiate e anzi sono peggiorate e non soltanto sul piano della logica politica. Ora le cricche che tengono in pugno i partiti si risparmiamo persino di sbandierare gli ideali di una volta, ma si limitano ad accusarsi reciprocamente di tutti i misfatti mentre nell’ombra continuano a spartirsi le spoglie del paese. Con quali risultati il benevolo lettore scoprire nelle pagine del nostro Notiziario sulla partitocrazia.

Novembre 2012